di Stefano Ragni – «Lui è me più di me stessa. Di qualunque cosa siano fatte le nostre anime, la sua e la mia sono le stesse», La dichiarazione è di Emily Bronte, ma potrebbe averla pensata e pronunciata anche la povera Clara Schumann, sposa imperitura di un appassionato stolker come il celebre Robert. Fidanzato insistente, ostinato, tentacolare, per quanto sarà poi marito ossessivo, occhiuto e paranoico. Un amore accolto e comunque passato alla storia, grazie alla profluvie di musica che Robert penserà quasi unicamente in virtù del suo rapporto con una donna che, come pianista di statura europea, porterà al successo molte delle opere.
Clara, grazie a questa situazione, si è guadagnata anche un piccolo posto nel concertismo in virtù del fatto che, col cognome che porta, risulta eseguibile a margine di un programma dove figuri l’immenso coniuge.
È stato così che ieri pomeriggio, sabato, il pianista Alessandro Taverna ha aperto il suo concerto per gli Amici della Musica di Perugia con due pezzi di Clara due Scherzi op. 10 e 14, pagine deliziosamente “infatuate”, legate all’innocuo “furore” mendelssohniano ma anche debitrici di certe metodicità virtuosistica chopiniana. Un gioco per il brillante pianista fiorentino riprodurre più che amabilmente pezzi che servono per scaldare le dita a qualcosa di più impegnativo.
In un programma destinato a ingrossarsi progressivamente fino alla scalata delle Variazioni Paganini di Brahms, la successiva Humoresque di Schumann ha esplicato ancora una volta i motivi della sua enigmaticità.
I pianisti la evitano perché costa molta fatica studiarla, analizzarla e renderla plausibile: per il pubblico è un certo impegno capirla e apprezzarla.
La versione di Taverna è stata esemplarmente maieutica, magnificamente frenata nelle sezioni più frenetiche, attenta e meditativa in quelle oasi in cui Schumann comincia a contemplare i suoi fantasmi interiori. Sono i momenti migliori della sua febbricitante accensione, ma le ombre ci sono e vanno illuminate per poterle suonare con persuasione. Le piccole visioni autoreferenziali, bozzetti di umor nero e, analogamente, le sfumature di tenerezza infinita, hanno come unico sfondo una fissità quasi autistica e non possono essere suonate come singolo momento. Merito di Taverna è stato anche quello di unificare tutto il caleidoscopio sotto una trama narrativa unitaria che ha rispettato la sorpresa di un finale, indicato da Schumann come “Verso una conclusione”, che sembra voler scuotere gli ascoltatori da uno stato di catalessi indotto dal labirintico percorso.
Apertura della seconda parte della serata con molto rumore. Efficace per gli applausi, ma fuori quadro per l’equilibrio della serata. Sei danza ungheresi di Brahms, oltretutto scelte tra le più popolari. Trascinanti, coinvolgenti, anche appassionanti, nonostante gli anni che ci separano da loro. Nell’indubbio virtuosismo che le esalta c’è qualcosa di melmoso legato agli ambienti in cui venivano suonate, e non c’è pianista, per quanto raffinato, che possa toglierne l’afrore che sa di birra e di sudore.
Scelte, si diceva, premiate dall’applauso del pubblico. E forse un giusto viatico per disporsi all’ascolto dei due Quaderni delle Paganini-Variazioni con cui Brahms entrò nel novero degli ammiratori del leggendario violinista genovese, una sorta di Marilyn Manson dell’Ottocento romantico. Oggi lo si paragonerebbe a un rapper tipo Sfera Ebbasta per l’impatto col pubblico, che, nelle esecuzioni di Paganini, avvertiva demonicità, elettricità sulfurea, ciarlataneria di altro bordo. Ma si faceva coinvolgere fino al delirio. Nell’orbita cadde lo stesso Schumann, autore di Studi ispirati a Paganini, che divenne anche una maschera di Carnaval. Sull’orma del suo maestro ideale, Brahms, pianista di grande spessore esecutivo, si pose davanti ai Capricci di Paganini, in particolare il Ventiquattresimo, che aveva stregato anche Liszt. Con una mentalità viennese, analizzò il significato di questo bruciante Capriccio e lo dissezionò come avrebbe fatto un Wittgenstein di fronte al “significante” di una frase. Lavoro scientifico di altissimo livello, un bulino da orafo, un microscopio da virus. Senza produrre un briciolo di bellezza, Brahms ottenne un quadro anatomico da incisione di Durer. Situazioni estreme per l’esecuzione, devastante vertigine di fronte alla complessità combinatoria, percorsi della mente che seguono la labirintica babele del linguaggio di Queneau, piccoli “racconti” che usano la stessa trama, frantumando le parole, e trasformandole in polvere di marmo che ti va tra i denti.
Taverna ha eseguito i due Quaderni senza frattura, quasi volesse farsi del male in questo percorso “estremo”. La fortuna e la sua bravura lo hanno premiato.
Lui, per ripagarci del nostro entusiasmo, ha voluto ancora “affliggerci” con un portentoso bis, una fuga di Reger desunta da Telemann. Un tritacarne dominato dal pianista veneziano con una classe impeccabile, capace ancora di uno scatto fisicamente ardito con la gragnuola delle ottave finali snocciolate con elastica disinvoltura. Bravissimo.
Sala dei Notari in versione sabato-pomeriggio. E’ un esperimento degli Amici della Musica e sembra che funzioni.
(Foto di Adriano Scognamillo)
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