L’incontro ravvicinato tra Beethoven e Schubert ha eletto a protagonista martedì sera Alessandro Taverna, pianista che ha certo regalato con la sua bellissima prova un momento apicale di questa edizione del Festival pianistico condiviso tra Bergamo e Brescia, prossime capitali europee della cultura. Sotto i riflettori è andata senza dubbio la musica, quella del grande protoromantico di Bonn e quella schubertiana scissa tra classicismo e romanticismo. Quest’ultima sia pure letta e interpretata attraverso il prisma luminoso di Liszt, che proprio come lo strumento ottico restituisce dell’onda luminosa originaria componenti spettrali che rivelano qualcosa di aggiuntivo sulla natura stessa della fonte.
Ed è stato ancora Liszt, quello prolificissimo delle trascrizioni e parafrasi, a chiudere il concerto, questa volta après Rossini, con la trascrizione per lo strumento a tastiera dell’Ouverture dal Guglielmo Tell. Dar coerenza a un percorso così apparentemente eterogeno, tra le solide strutture formali del sonatismo beethoveniano e l’apparentemente inconciliabile conflitto schubertiano tra «vita gaia» e «vita terribile», la dicotomia posta a titolo programmatico della prova offerta domenica dalla coreana Ilia Kim, non è impresa scontata. E proprio Liszt, sorta di «traduttore» poetico applicato soprattutto ai repertori del suo secolo di appartenenza, parrebbe poter estremizzare tale incontro. D’altra parte ben noto è il pregiudizio che per molto tempo è gravato sul versante virtuosistico delle «reminiscenze » lisztiane.
Pure in primo piano si è imposto proprio l’esecutore, che ha attraversato la Sonata nr. 3 di Beethoven, la trasposizione pianistica dei «Lied Auf dem wasser zu singen, Gretchen am Spinnrade e Die Forelle», approdando festosamente alla parafrasi, potenzialmente garrula e sguaiata, della Marcia dei soldati svizzeri di Rossini, eludendo ogni esteriorità o scorciatoia. Merito di un grande interprete che mette in conto qualità di suono e di tocco sin dalle prime note. Rigoroso anche nei respiri dati alla musica (e tra i movimenti), mantenendo alta la tensione e la concentrazione sua e del pubblico, calibrando le dinamiche senza mai concessioni all’effetto pirotecnico o sentimentale. Colpisce, a differenza di altre perentorie esecuzioni ascoltate in queste serate, la capacità di restituire liquidità e carattere trasognato, dopo la bellissima pagina beethoveniana, all’incontro tra Liszt e Schubert, ma con un controllo quasi tridimensionale dei diversi piani sonori, rendendo plastica la distinzione tra figure di sfondo e primi piani, soprattutto con il secondo episodio dedicato a Schubert.
Ha chiuso il concerto l’etereo adattamento, a firma del solista, de «Il cigno» di Saint Saens, che svanisce fragile sotto i colpi secolari del campanone civico.
Renato Magni
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