Il pianista veneziano suonerà questa sera al Donizetti, spaziando tra Berg, Schubert, Gulda e Strauss
«ViennaSkyline» sembra lo slogan su misura per il recital pianistico di Alessandro Taverna, Il pianista veneziano, dal 2018 ospite del Festival Pianistico, sarà protagonista questa sera (alle 20.30) al Teatro Donizetti, con Berg, Sonata op.1, Wanderer-Fantasie di Schubert, Friedrich Gulda (Aria, Preludio e Fuga), un walzer di Strauss (arrangiamento Dohnanyi) e Adolf Schulz-Evler (Arabeschi su temi di Johann Strauss).
Partiamo dal programma della serata: si direbbe proprio uno skyline di Vienna, da dove è nato?
«La tematica del festival permette di spaziare per tre secoli. Mi sono concentrato su ‘800 e inizio ‘900, con due esecuzioni di Gulda che sono uno sguardo al passato, ispirate al barocco come molte altre sue opere. Ci rivelano un compositore classico per eccellenza, con improvvisazioni e ornamenti. Una sorta di moderno piuttosto… camuffato. Quello di Schubert è un brano classico, quasi una forma-sonata senza interruzione di continuità. La serata inizia con la Sonata di Berg: con il suo stile atonale e stridente in verità è uno degli ultimi approdi del Romanticismo. Io credo si debba leggere il’900 come continuazione del romanticismo. Tra i pianisti tutti conoscono la sua Sonata, poi non molti la mettono in repertorio. Anche il Concerto per piano e orchestra di Schonberg, pienamente dodecafonico, si può leggere in chiave romantica, Va sfatato il mito della serialità e della atonalità come una totale rottura col passato».
Si può leggere il programma come un parallelo tra valzer e una parte «impegnata»?
«Il valzer è musica di intrattenimento, da salotto. Direi che ci sono due elementi: uno è la complessità di scrittura e la ritmica per l’orchestra: il valzer è un po’ come suonare Mozart, “facile ma difficile”. Poche orchestre hanno questo ‘slang’ mozartiano, a volte non lo si raggiunge, ci si avvicina. Come per le operette c’è una complessità di fondo, non c’è “facilità”. Il valzer è come la proiezione di un mondo in disfacimento, da cui deriva la serialità e Berg. Ci si muove tra i salotti e gli specchi di una Vienna di fine secolo, ma dietro i fasti e le feste emerge altro».
Pianista giovane e di successo. Come vede lo stato del pianismo oggi?
«La inquadrerei in una dimensione generale della musica. C’è travaglio e lo vedo prima di tutto su me stesso: in un mondo che cambia così velocemente, non è tanto una questione di linguaggi ma di contorni che devono far transitare il messaggio principale della musica. Forse facendo tante cose si lascia un po’ da parte l’essenza: la musica deve portare o all’esaltazione o alla commozione. L’esaltazione più facilmente si trova, la commozione, l’intimo, il dettaglio, ciò che fa a pugni con i grandi numeri, in spazi raccolti, questo adesso manca».
C’è spazio per l’improvvisazione?
«Non quella condotta dei jazzisti. In Gulda c’è anche improvvisazione. Ma improvvisare, come diceva Piero Rattalino, che ho avuto come maestro, funziona se il principio di piacere prevale sul principio di legittimità. E quello che facciamo in fondo nella nostre esecuzioni. Non dobbiamo dimenticare che l’esecuzione è perfettibile: sperimentare più che improvvisare».
Secondo lei oggi cosa ci vorrebbe?
«Oggi siamo figli del pensiero unico, che contagia qualsiasi cosa. A volte ci condiziona, abbiamo paura di affermare noi stessi con le caratteristiche nostre, e non solo nella musica. Quello che passa sono tutte cose avulse dalla musica, spesso ne sono un corollario. Rattalino parlava di andare contro occorrente, non per fare gli alternativi, ma per essere personali, nei concorsi come negli esami in conservatorio: ci sono le note ma anche gli spazi tra le note. In questi spazi c’è la differenza tra un interprete e l’altro».
Come è avvenuto il suo incontro col pianoforte?
«Non sono figlio di musicisti, è nato per gioco e per caso, una piccola pianola regalo di Natale a 4 anni. I miei hanno capito che avevo orecchio perché riproducevo alla tastiera le musiche che sentivo in tv. Poi c’è stata la passione, il desiderio e la speranza di arrivare allo stesso livello degli altri miei compagni, lavorando su me stesso per riuscirci. Fondamentali sono state due insegnanti: la mia prima maestra di Caorle, Cinzia Francescato e poi Lauretta Candiago».
Cosa significa per lei un concerto?
«È condivisione, con l’orchestra in primis, è piacere e impegno di fare musica con gli altri. Significa raccontare quello che la musica dice a me».
Ci sono altre passioni oltre al piano?
«Ci devono essere: la musica è più o meno totalizzante. Ci fa soffrire o gioire ma è una parte della vita, che è anche altro. La musica non potrebbe esistere se non ci fosse l’altro, le esperienze, il contatto con gli altri. Da “quasi ingegnere” quale sono mi appassionano la Formula Uno e la Ferrari. Ma in particolare mi piace l’architettura, visitare i luoghi dell’arte. Oggi da organizzatore culturale – del Festival di Portogruaro, e ora una consulenza musicale al Teatro Verdi di Pordenone – amo i luoghi dell’arte in Veneto: credo che musica e architettura si sposino in modo perfetto. Penso al percorso naturalistico-architettonico Brenta-Palladio: parla di geometria e musica. Le ville venete sui navigli del Brenta sono esempi di ingegneria che sposa la bellezza.
Bernardino Zappa
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