Il 38enne pianista veneziano confida la sua ammirazione infinita per il leggendario collega italiano. «Sono cresciuto ascoltando le sue interpretazioni. Nutro davvero una grande ammirazione per Pollini, anche per il Pollini di adesso. Perché ci rivela che un pianista può cambiare nelle diverse fasi della sua vita ma non perdere mai l’interesse, quel senso di tensione che, ancora a 80 anni, nel suo caso non è esaurita». Suonare news ha incontrato Taverna per farsi raccontare la sua storia e i suoi ultimi progetti.
testo di LUISA SCLOCCHIS
«Il pubblico, all’improvviso, è stato pervaso da una solenne bellezza: sono stati impeccabili minuti di intensa poesia!» scrive di Alessandro Taverna, interprete del Primo concerto per pianoforte di Chopin, il quotidiano britannico The Independent. Pianista trentottenne di origine veneziana, Taverna, si afferma rapidamente nel panorama pianistico internazionale: numerosi sono i riconoscimenti da lui ricevuti in concorsi tra cui quelli di Londra e Leeds, di Hamamatsu in Giappone. E, ancora, il Concorso “Busoni” di Bolzano, il Premio Venezia, il Premio “Benedetti Michelangeli”. La sua carriera in rapida ascesa lo porta ad esibirsi nelle più prestigiose istituzioni concertistiche. Suonare News lo ha incontrato, lo scorso aprile, in occasione del suo concerto per il Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo per tracciarne un “colorato” ritratto d’artista.
Partiamo dal suo percorso formativo costellato di mostri sacri degli 88 tasti. Tra questi Piero Rattalino, Franco Scala, con cui ha completato la sua formazione artistica all’Accademia pianistica di Imola, Boris Petrushansky, Louis Lortie e Sergio Perticaroli, con cui ha conseguito il diploma “cum laude” all’Accademia Nazionale Santa Cecilia di Roma. Cosa deve ad ognuno di loro?
Credo che nessun insegnante possegga una “ricetta”. Da nessuno ho imparato “come” si suoni il pianoforte, perché si tratta di un percorso che ogni pianista e ogni persona matura da sé. Credo però che ognuno abbia contribuito a trasmettere qualche segreto per capire quale potesse essere «un buon livello di artigianato». Gli insegnanti che ho avuto sono tutti pianisti, ovviamente, chi concertista, chi didatta in senso stretto, chi mi ha aperto un orizzonte culturale, chi rivelato il segreto di una diteggiatura, chi aiutato a capire come affrontare il palcoscenico. Insomma, dico sempre in modo un po’ ecumenico, citando le parole di San Paolo, «vagliare tutto e tenere ciò che è buono». Questa mi sembra sempre una buona massima.
È stato ospite, lo scorso aprile, del Festival internazionale di pianoforte di Brescia e Bergamo: qual è il suo rapporto con questa rassegna musicale internazionale?
Sono tornato in varie edizioni del festival. Ricordo che l’ultima è stata in un momento difficile, quello del lockdown, nel 2020. Ma il mio rapporto col festival è ormai decennale. E l’amicizia con Piercarlo Orizio è stata anche un volano per la mia carriera. Attorno al festival, infatti, credo siano cresciute le carriere di molti pianisti italiani e non solo. Quindi, sì, è sempre un grande piacere tornare, oltre che un grande onore vedere il mio nome accanto a quello di grandissimi della scena pianistica internazionale.
Si è esibito come solista per importanti istituzioni musicali e sotto la guida di prestigiose bacchette tra cui Lorin Maazel, Riccardo Chailly, Myung-Whun Chung, Daniel Harding e Daniele Rustioni. Ci racconta un episodio che ricorda con particolare piacere?
Direi che ciò che rimane impresso nella memoria, oltre al momento della performance, è il lavoro che la precede. Con tutti questi grandi direttori, ma anche con quelli meno blasonati, c’è sempre il piacere di lavorare insieme e produrre. Parlavo prima di artigianato… ecco, mi riferivo a questo: il momento creativo, in cui veramente si esprime il nostro essere musicisti, ci si confronta, si scambiano le idee, e in qualche modo si costruisce la performance. Vedere come ognuno di loro lavora, capire cosa chiede all’orchestra, come pensa la musica ed intende un fraseggio, al di là del concerto in sé, è molto significativo e appagante.
Riferimenti tra i grandi pianisti del passato da cui ha tratto ispirazione?
Sono cresciuto con Pollini. Nutro davvero una grande ammirazione per Pollini, anche per il Pollini di adesso. Perché ci rivela che un pianista può cambiare nelle diverse fasi della sua vita ma non perdere mai l’interesse, quel senso di tensione che, ancora a 80 anni, nel suo caso non è esaurita. Credo che questo sia significativo per i pianisti che cercano la perfezione, che sia utile a ricordare che quella perfezione non deve essere fine a sé stessa. Poi citerei András Schiff: la sua Sonata in La minore K 310 di Mozart ha praticamente accompagnato la mia infanzia. Sognavo di avere quello spartito e tutto è un po’ cominciato così. E, acora, la Argerich, che è un miracolo, punto. E tra i “mostri sacri del passato, direi Benedetti Michelangeli, per il senso del rigore, per il suo rispetto della musica. Ma anche Backhaus e Richter. Ma sono davvero tantissimi.
Parliamo dell’attività didattica che svolge in parallelo a quella concertistica: insegna pianoforte all’Accademia pianistica di Imola “Incontri col Maestro”, al Conservatorio “Cesare Pollini” di Padova ed è titolare della cattedra di perfezionamento pianistico presso la Fondazione Santa Cecilia di Portogruaro. Suggerimenti che si trova ad elargire più spesso ai suoi allievi?
Da un punto di vista tecnico direi che la cosa più importante per un pianista è capire, conoscere. Non solo la tecnica, ossia un costrutto spesso astratto del pensiero, ma capire soprattutto struttura, fraseggio e armonia. Sono tre cose importanti, che permettono di comprendere come si svolgono le tensioni musicali, cosa significa che un accordo chiama l’altro accordo e che tipo di sentimento innesca. Perché le armonie sono come i colori e i colori inducono delle emozioni. Quindi, capire la struttura armonica, l’architettura e la for- ma. Poi, quel che ho appreso soprattutto a Imola, ma ancora prima con la mia maestra Lauretta Candiago, ossia cosa sia il fraseggio musicale, come dice anche il Maestro Muti. E, ancora, l’importanza del legato che, purtroppo, in qualche misura stiamo perdendo.
Un balzo alle origini: come è avvenuto il suo incontro con il pianoforte? Ma soprattutto quando ha capito che sarebbe stato il suo compagno di vita?
Non c’è stato un momento in cui ho deciso che sarei diventato un pianista. Sembra un po’ retorico dirlo… ma ho percepito che il pianoforte era una parte di me senza la quale non potevo stare. Poi, l’interesse è cresciuto, con le mie esperienze, con l’insegnamento, con l’ambizione, come per tutti i pianisti, con la volontà di arrivare a un traguardo. E il confronto con i colleghi è stato una leva importante, un ulteriore stimolo. Mi riferisco a Imola, ma non solo. Quindi non c’è stato un preciso momento. Non provengo da una famiglia di musicisti. Credo che le prime esperienze siano state da bambino: per puro caso ricevetti in regalo una piccola pianola e i miei genitori vedendo che ad orecchio suonavo quel che sentivo alla televisione decisero di farmi fare un po’ di lezioni. Ma in modo del tutto naturale, senza traguardi o ambizioni particolari. Poi da cosa è nata cosa…
Dal 2021 è direttore artistico del Festival internazionale di musica di Portogruaro, quale l’impronta che intende lasciare col suo passaggio?
Intanto, eredito un festival, non l’ho fondato. Un festival che possiede già una sua tradizione, una sua storia gloriosa. Quindi non ho nemmeno la volontà di voler cambiare troppo quel che già esiste da 40 anni. Certamente poi, prima di me c’è stato Enrico Bronzi e ancora prima Pavel Vernikov, artisti di diverso carisma, differente sensibilità musicale e differente età. Quel che vorrei fare, consolidando una tradizione del festival, è portare personalità nuove a contatto con gli artisti affermati. Mi piacerebbe che Portogruaro diventasse nel Veneto orientale, celebre per le sue ricchezze paesaggistiche, un palcoscenico in cui poter conoscere realtà provenienti dai grandi teatri. Quindi, avere almeno un appuntamento con grandi orchestre. La mia attività mi ha permesso di stringere amicizie con molti colleghi e rapporti con orchestre con cui si è sviluppata una sintonia particolare e questo rende le cose molto più facili. Ecco, vorrei portare l’orchestra come una sorta di compimento della musica. Lavorare in modo che la dimensione cameristica induca sempre più a godere anche della musica sinfonica.
Come la precarietà che da qualche anno respiriamo, tra covid e conflitto Russia- Ucraina, incide, a suo avviso, nella carriera di un artista?
Devo dire che ho sofferto e continuo a soffrire molto. Ho moltissimi amici da una parte e dall’altra e credo che non sia giusto che la musica possa essere complice di questo disastro la cui colpa è unicamente dell’uomo. Si dice che nella musica si possano sopire anche le tensioni, ma quello che stiamo vivendo non sembrerebbe portare in questa direzione. Quindi la sofferenza è grande perché speravo che nella musica risiedesse un senso di amicizia capace di superare tutto. Forse, seguendo un po’ l’arte, la musica… Ma pare che il mondo di oggi sia poco interessato a questo. Non è una critica ma una constatazione in un momento di amarezza. Mentre, per quanto riguarda il covid… si, ci ha un po’ spiazzati, inizialmente. Però devo ammettere di esser stato tra i fortunati che hanno sempre continuato a lavorare con lo streaming e con le lezioni. Sembra quasi che, guardando indietro, questi due anni non siano mai esistiti. Certo, il colpo che abbiamo subito è evidente se osserviamo l’affuenza nelle sale da concerto. Ma speriamo di poter tornare presto a riappropriarci con pienezza dei nostri spazi di fruizione musicale.
Infine, sogni da realizzare nella sua vita professionale e non solo?
Oh, tanti! Indubbiamente quello di continuare a migliorare. Certamente riconosco ciò che ho conquistato ma guardo in prospettiva a quel che ancora si potrebbe fare meglio. E parlo sia da un punto di vista tecnico che di repertorio, di consapevolezza e di cultura in generale. L’esperienza di direzione artistica mi porta ad abbracciare una visione molto più ampia della musica soprattutto in quanto espressione artistica. Poi, sotto il profilo umano mi piacerebbe restare semplice. La musica è una compagna che per alcuni diventa totalizzante. Ma anche ad alti livelli, il proposito dovrebbe essere che resti qualcosa che accompagna la nostra vita in positivo e mai che ci assorba totalmente.
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