Il pianista veneziano Alessandro Taverna domani sera in concerto al teatro Donizetti.
Se l’imperativo categorico ampiamente annunciato del 59° Festival Pianistico Internazionale è dimostrare la vitalità del Novecento nel campo della musica pianistica, l’inaugurazione domani sera alle ore 20 al teatro Donizetti ne è una dimostrazione eloquente.
Sul palco del teatro cittadino ci saranno infatti la Filarmonica del Festival diretta dal direttore artistico Pier Carlo Orizio e due pianisti di spicco: il veneziano Alessandro Taverna e l’ucraino Alexander Romanovsky, per ben tre opere per pianoforte e orchestra.
Il dispiegamento di forze artistiche è esplicito, ma più eloquente è il menù musicale: il Concerto n.1 di Britten op.13 (1938), il Concerto per due pianoforti e orchestra di Poulenc e, forse il più noto e debordante dei tre, la Rapsodia su temi di Paganini di Rachmaninov, culmine più alto nel genere (Rattalino) affrontato dal compositore russo.
La Rapsodia op. 43 di Rachmaninov è ampiamente rientrata nel grande repertorio, sintesi di virtuosismo orchestrale e virtuosismo pianistico, quello a cui l’autore aveva già da tempo abituato i suoi ascoltatori tra varietà di soluzioni e ricchezza di idee, tra le più alte raggiunte dal compositore di Onega. La Rapsodia sintetizza quasi due secoli di musica, dal tema originale del Capriccio di Paganini alle variazioni fatte da altri compositori, su tutti da Brahms, realizzando un affresco musicale di rara potenza. Tuttavia – qui il senso della serata inaugurale – non sono da meno gli altri due Concerti per pianoforte e orchestra.
«Quello di Britten è un Concerto che si sente poco – spiega il veneziano Alessandro Taverna – avrei dovuto portarlo a Dallas con Fabio Luisi nel 2021, ma poi con la pandemia abbiamo dovuto cambiare. L’ho eseguito a Genova nel 2020. Poi è stato accolto a Santa Cecilia con Michele Mariotti. Per questo Concerto è un momento positivo e felice. Sopravvive naturalmente in Gran Bretagna e Londra, più volte è stato eseguito ai BBC Proms. Ha un organico importante, la partitura orchestrale è piuttosto impervia, oltre al virtuosismo del pianoforte, oltre a momenti lirici. È un lavoro molto fresco, Britten diceva che è in forma semplice, diretta, ed è così.È un linguaggio novecentesco:è un Novecento molto diretto, molto comprensibile. E i temi sono immediati. C’è una certa gioiosità nella marcia finale». È cupo l’Intermezzo, mentre domina una vena gioiosa nel primo e nel quarto tempo in particolare.
Un riferimento stilistico?
È uno stile un po’ british, come l’autore: originale, è il primo, dopo il Secondo Concerto di Brahms, così strutturato e ampio. Poi certo che il primo movimento, per l’uso del pianoforte, presenta echi del Primo di Prokofiev col pianoforte percussivo.
E il concerto di Poulenc per due pianoforti ?
Lo sento vicino, è stato presentato a quella che era la Biennale di Venezia nel 1932 con l’Orchestra della Scala: per me, come per Romanovsky, è la prima volta che lo eseguiamo. È un concerto gradevolissimo, pieno di riferimenti che si sprecano a partire dal Larghetto mozartiano che ricorda il concerto K466. Poi si passa una scrittura di tipo ravelliano e di Rachmaninov, tra felicità e gradevolezza legate alla freschezza e al proliferare dei temi. C’è sempre un effetto sorpresa. Sembra quasi di ascoltare idee nuove, la fantasia non si arresta mai. Come sempre in Poulenc c’è la grande sapienza di dosare i rapporti tra solisti e orchestra.
La Rapsodia di Rachmaninov?
Affianca un Novecento che riprende più l’ottica romantica. Elaborazione di un tema più volte recuperato dai compositori romantici, come Brahms e Liszt e poi altri. Sono variazioni sul famoso Capriccio di Paganini, tra i più belli il tema in re bemolle maggiore, un climax. Dimostra come Rachmaninov fosse un vero maestro anche nell’orchestrazione. È un passo quasi operistico dentro l’opera con inarrestabile dialogo tra orchestra e pianista.
Come vede questo Novecento diretto per il pubblico?
Sembrano opere vicine ai nostri giorni, ma appartengono a un passato non così recente, sono di quasi un secolo fa. Il fatto che il festival abbia il coraggio di guardare a questo linguaggio è importante. Oggi è un’operazione necessaria. Anche la contemporaneità non deve spaventare. Certo oggi la gente chiede di essere rassicurata, dopo la pandemia, ma anche di essere sorpresa. È un momento difficile: occorre abbandonare certi cliché. Il ‘900 è bizzarro e sorprendente, sprona alla curiosità anche noi musicisti ma è la curiosità che spinge avanti l’arte.
Bernardino Zappa
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