Che il concerto di Benjamin Britten fosse pane per i denti dei pianisti più impavidi era già cosa nota; Alessandro Taverna ce lo ha ben ricordato, ma, a onor del vero, bisogna dire che ha saputo abbinare all’indispensabile audacia una delicatezza non così comune. Apparentemente timido – chissà poi se è solo un’impressione – Taverna non si perde in convenevoli, sorride e si siede alla tastiera, senza pose e apparenti rituali. La partitura trabocca di sorprese, l’armonia a volte spiazza, lo stile disorienta, il linguaggio è variegato, bene si inserisce nel Novecento, ma strizza l’occhio pure al passato, quello più recente e quello più lontano, le idee sono brillanti e profondamente personali. Britten è Britten, la convenzionalità e lo scontato non fanno per lui. Tanto di cappello a chi riesce a interpretarlo, restituendone gli umori cangianti, la raffinata sensibilità, la peculiare rivisitazione di moduli e procedimenti compositivi, che riaffiorano “dall’antico” con vesti nuove, adattandosi perfettamente alla modernità. Chapeau, dunque, a Taverna, artista eccellente ed estraneo a vacui esibizionismi, ma anche all’altro grande protagonista della serata, Fabio Luisi, che tante volte abbiamo avuto l’opportunità di seguire nella nostra (e sua) Genova. Aggiungiamo naturalmente l’Orchestra del Teatro Carlo Felice, che, lo abbiamo detto tante volte, nelle mani giuste rivela le sue più belle e tante qualità, indipendentemente dalle possibili imprecisioni, sempre in agguato, specie in certo repertorio. Esecuzione del tutto convincente, con riferimento al concerto di domenica, tanto per Britten quanto per la meravigliosa Verklärte Nacht di Arnold Schönberg.
Torniamo per un attimo al Concerto per pianoforte e orchestra op. 13, eseguito con grande maturità tecnica e interpretativa: brillanti i tanti passaggi virtuosistici, dolci i momenti cantabili, decisi ma non eccessivi i forti, sempre calibrati, e un tocco delicatissimo nel piano, con il suono sempre nitido e cristallino. Ottima la conduzione dal podio, che gestisce incastri e sonorità senza mai coprire o rubare la scena al pianoforte, che ne esce anzi supportato e valorizzato: la conferma viene dal gesto di Luisi, composto e definito ma anche “danzante”, allusivo, immediatamente recepito dalle file d’orchestra e restituito alla platea. Passiamo così, senza soluzione di continuità, al brano di Schönberg,un poema sinfonico (in origine scritto per sestetto d’archi) “da camera” – quasi una contraddizione in termini – che dà sfogo all’interiorità attraverso procedimenti compositivi differenti, che parrebbero quasi inconciliabili e che qui trovano invece una perfetta sintonia, un gioco su frammenti o motivi che si trasformano, che ritornano, che si avvolgono e si contorcono, il tutto in un contesto armonico sempre più azzardato ed estraneo alla tradizione. La lettura di Luisi dà conto dell’estrema complessità evidenziando dinamiche, timbriche e soprattutto, come è nelle sue corde, “spolpando” la partitura alla ricerca della più intensa espressività, estraendo dalle parole di Richard Dehmel – autore della poesia simbolista da cui trae spunto la composizione musicale – il senso ultimo e la profonda suggestione.
Buon avvio per entrambe le stagioni, quella lirica e quella sinfonica, del Teatro Carlo Felice; chi ben comincia, si dice, eccetera eccetera. Teniamo su le mascherine e incrociamo le dita.
La recensione si riferisce al concerto del 4 ottobre 2020.
Barbara Catellani
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