Bella serata nel bel mezzo di questa estate che si annuncia torrida, qui al mio bel San Carlo di Napoli, che ci riporta alla seconda parte di quel Secolo che fu detto Romantico con due opere ormai – in qualche modo – classiche, che, tuttavia, in diversa misura e con differenti modalità, già annunciano il superamento dei canoni che contraddistinguevano quell’ampio movimento che noi oggi chiamiamo, per l’appunto, Romanticismo. Nel primo caso si parte da un dato tecnico, che concerne l’essenza stessa del convivere del pianoforte con l’orchestra: riuscì, Franz Liszt, che di quello strumento era indiscusso signore, a creare qualcosa di completamente nuovo, tanto che si parla, nel caso specifico, di Concerto symphonique, sapendo coniugare l’eccelsa tecnica pianistica con la grande forma sinfonica orchestrale. Nel secondo caso, la leggenda e il mito hanno verosimilmente superato ogni limite e probabilmente la Sesta di Pëtr Il’ič Tchaikovsky è la Sinfonia su cui si è più scritto nella storia della musica, segnando il momento esatto in cui l’estremo Romanticismo cede il passo, nel sentire e nelle tensioni, se non ancora nelle forme, al Decadentismo.
È Fabio Luisi che guida l’Orchestra del San Carlo, stasera: famoso direttore d’orchestra, genovese, ha studiato pianoforte, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio di quella città, poi, nel corso della sua carriera, ha collaborato con rinomati solisti e ha diretto un’ampia gamma di repertorio, dal periodo barocco a opere contemporanee: conosciuto per la sua attenta attenzione ai dettagli musicali, la precisione interpretativa e la profonda comprensione delle opere che dirige, è considerato uno dei direttori più versatili e talentuosi della sua generazione. Oltre all’attività di direttore d’orchestra, Luisi è anche compositore e arrangiatore, ha composto diverse opere, brani orchestrali e da camera che sono stati eseguiti in varie occasioni e ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi per la sua carriera musicale, tra cui il Grammy Award per la miglior opera nel 2013. Continua ad essere una figura di spicco nel panorama musicale internazionale, collaborando con importanti orchestre e teatri in tutto il mondo.
Alessandro Taverna è pianista di grande talento, nato a Venezia nel 1983, ha iniziato a studiare il pianoforte fin da giovane età e ha mostrato un notevole talento musicale sin da bambino, conseguendo numerosi premi e riconoscimenti in importanti competizioni pianistiche internazionali. Ha al suo attivo l’incisione di diversi album, tra cui registrazioni live dei suoi concerti e registrazioni in studio: le sue esecuzioni vengono sempre accolte con grande apprezzamento da parte della critica e del pubblico. È poi impegnato anche nell’insegnamento e tiene masterclass in diverse istituzioni musicali in tutto il mondo, condividendo la sua esperienza e la sua passione per la musica con le nuove generazioni di pianisti. Il suo repertorio spazia dalla musica romantica e a quella contemporanea, ma è particolarmente noto per le sue interpretazioni di compositori come Chopin, Rachmaninov, Liszt e Schumann, autori più consoni alle sue corde, riuscendo a trasmettere emozioni profonde attraverso la sua musica, grazie ad una tecnica impeccabile e alla sua notevole sensibilità interpretativa.
Il Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra, S 124, è una delle composizioni più famose di Franz Liszt: scritto in un lunghissimo periodo, tra il 1830 e il 1856, con diverse revisioni e ripensamenti, ha rappresentato, alla fine, come detto, un punto di svolta nella storia della musica concertante per pianoforte, perché a differenza dei concerti precedenti, in cui il pianoforte era spesso considerato solo come un accompagnamento all’orchestra, è questo il primo caso in cui il suo ruolo si eleva a protagonista, facendolo dialogare direttamente con l’orchestra in un modo completamente nuovo, introducendo una struttura più libera ed enfatizzando la brillantezza virtuosistica dello strumento, ai limiti delle abilità tecniche del pianista. Il Concerto è un esempio di romanticismo musicale, con la sua ricchezza di emozioni, contrasti dinamici e virtuosismo, riuscendo a ben rappresentare anche l’influenza di Liszt come pianista e compositore, tuttavia sa esser pure molto stimolante, l’energia è sempre alta, mai appesantita da alcuna sdolcineria inutile. È un pezzo breve, in verità, ma sembra comunque finisca in un batter d’occhio, perché non c’è un solo momento di noia, venti minuti di bravura pianistica lisztiana, resa ancora più emozionante con un’orchestra con cui interagire, rispondere, dialogare.
Stasera abbiamo avuto ancora una volta la prova del perché quest’opera rimanga una delle più eseguite e apprezzate del repertorio pianistico e continui ad affascinare il pubblico con la sua bellezza e complessità, perché poi, l’essenza del concerto risiede nella sua sfacciata spavalderia, certificata, denunciata, sottolineata in ogni modo da Liszt sia per l‘ensemble che per il solista: vedere Taverna – che in qualche modo, anche fisicamente, risulta somigliare all’Autore, non saprei se per fortuito caso o ricercato vezzo – alle prese con l’Allegro maestoso e le sue rapide scale, gli arpeggi, le veloci ottave da già la misura sia della scommessa dell’Autore sia della vittoria dell’interprete, anche se è soprattutto con l’Allegretto vivace del terzo movimento che la gestione dei passaggi più intricati diventa veramente mirabile, nei ritmi danzanti che richiamano al folclore magiaro, nell’intrico virtuosistico degli sviluppi tematici. Insegue, l’interprete, le sollecitazioni, le ironie, le sfide che furono dell’Autore, merlettate pioggerelle di grandine fine, arabeschi di fuoco spesso in contrasto palese con l’incedere dell’orchestra, una meraviglia continua che perennemente si rinnova, si contrae, si dilata sotto i nostri occhi, aria nell’aria, suono nel suono, l’astrattezza della musica al massimo grado consentito, fino all’inevitabile, troppo precoce fine che dà la stura agli applausi, molti, insistiti, ostinati fino all’ottenimento di ben due bis, altrettante prove di stile.
Il primo dei due è il Preludio n. 5 Op. 32, uno dei brani più popolari e amati di Sergei Rachmaninov, tanto spesso eseguita nei concerti pianistici, in sol maggiore, dal carattere energico e virtuosistico. Taverna l’affronta e ce lo restituisce conducendoci nell’incanto attraverso la serie di arpeggi rapidi e passaggi brillanti che ne costituiscono l’essenza e che richiedono grande tecnica esecutiva, moti ondeggianti dell’acqua su cui s’innesta, tenue, una sospesa melodia. Di tutt’altro sapore la seconda piccola grande gemma che ci è stata donata, un omaggio al genio pianistico di Friedrich Gulda, uno dei più acclamati interpreti del Secolo breve, noto per la versatilità e l’approccio assolutamente eclettico alla musica, sperimentando una vasta gamma di generi, dal jazz alla musica classica, e improvvisatore molto abile. Del compositore austriaco Taverna esegue Play Piano Play Nr. 6 – Toccata, certamente uno dei più impegnativi dal punto di vista della tecnica, perfetta contaminazione jazzistica ritmata e sincopata ben adatta a chiudere in maniera significativa la notevole performance di stasera.
Dopo l’intervallo si torna in sala per la seconda parte della serata, dedicata alla Sinfonia n. 6 in Si minore, conosciuta anche come Patetica, una delle composizioni più celebri del compositore russo Pëtr Il’ič Tchaikovsky, composta nel 1893, poco prima della sua morte. Spicca, la composizione, per la sua intensità emotiva e per l’abilità dell’Autore nel trasmettere sentimenti di angoscia e desolazione, anzi per questo considerata una delle opere più personali di Tchaikovsky, poiché molte delle sue proprie emozioni e tormenti interiori sembrano riflettersi nella musica, venendo spesso interpretata come una sorta di epitaffio musicale, con l’andamento del movimento finale che sembra suggerire una sorta di anticipazione della morte imminente. La composizione ha suscitato grande interesse e discussione tra gli studiosi e gli appassionati di musica sin dalla sua prima esecuzione: il suo significato e il suo finale enigmatico hanno dato luogo a diverse interpretazioni, e la sinfonia continua a esser fonte di innumeri dispute tra sostenitori e denigratori del compositore russo, a partire dalle critiche di “decadentismo” di cui fu oggetto fin dagli albori del Secolo breve. Richard Alexander Streatfeild non si peritava di sostenere che la sua musica si tuffa in un pessimismo malaticcio solo per salire all’isteria e la cui emozione è piuttosto superficiale che profonda, pur ammettendo che il suo Autore fosse nonostante tutto, un artista incomparabile.
Il pathos che permeava la sua musica, fino a dare il nome alla sua ultima Opera, diventava allora niente meno che strumentalizzazione dei sentimenti umani per influenzare il giudizio dell’ascoltatore o dello spettatore, e questo nonostante si sapesse con certezza che la denominazione di “Pathética” non ha esattamente questa connotazione – in russo, «pathos» è una forma sublimata di «emozione» o «passione» – e non era prevista dal suo autore, ma piuttosto proposta dal fratello Modest e adottata, con evidente interesse pubblicitario, dal suo editore nella prima stampa di quest’opera nel 1894. Era comunque un giudizio sommario che investiva uno dei tratti distintivi della cultura degli ultimi decenni dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, che si estendeva, in musica, dall’ultimo Wagner – soprattutto Parsifal – all’impressionismo di Debussy. L’intellighenzia dopo la prima guerra mondiale censurò il decadentismo musicale come estrema conseguenza del romanticismo, provocando un’ondata critica che puntò – in modi diversi e con diversa intensità – alla musica di autori come gli stessi Wagner e Debussy, ma anche a Strauss, Mahler o Sibelius.
Basti dire che – tanto per restare nell’ambito della musica “decadente” – mentre la Patetica è del 1893, Parsifal è del 1882 – dieci anni prima – mentre Mahler compone la sua Seconda, Resurrezione, nel 1894, Richard Strauss Till Eulenspiegels nel 1895, Karelia di Sibelius è del 1893. Aggiungiamo anche le nostrane Manon Lescau, del 1893 e Cavalleria rusticana, scritta nel 1890, e il quadro sarà completo, senza dimenticare, last but not least, il manifesto dell’impressionismo musicale: Prélude à l’après-midi d’un faune è del 1894. Tutto questo per dire che spesso i critici musicali – brutta razza – confondono le loro particolari idiosincrasie o – peggio – le loro idee sociali e politiche con lo studio della musica, soprattutto trovandosi nella stessa temperie in cui le opere furono scritte, lo sguardo è falsato, soffre di miopia o di presbiopia o di strabismo.
Acqua passata. Come si può considerare ormai archiviata, almeno sul piano strettamente musicale, anche la critica di Theodor Adorno che accusava Tchaikovsky di incarnare i vizi musicali della cultura popolare, esempio paradigmatico di Autore di opere predisposte per essere tagliate e consumate dalle masse attraverso i nuovi mass media – radio, cinema, dischi – alterandone le modalità di ascolto, favorendo un ascolto decentrato e frammentato che, insieme ad altri fattori, induceva nella società un atteggiamento privo di critica e di sottomissione nei confronti dell’ordine capitalista. Gli studi di Adorno conservano ancor oggi, naturalmente, un enorme prestigio intellettuale perché sono stati pionieri nell’evidenziare l’influenza delle tecnologie della comunicazione sugli ecosistemi sociali, tema che riveste ancor oggi eccezionale particolare importanza, tuttavia non si può più prendere sul serio la tendenza compulsiva di Adorno – compositore frustrato – a collegare metafisicamente il suo acutissimo e ancor valido ragionamento sociologico con l’analisi musicale, tra l’altro governata da un’irredimibile prospettiva tedescocentrica e da una mentalità impregnata di tic misogini incompatibili con l’analisi equilibrata e pacata del decadentismo.
E così possiamo assistere, stasera, a questa interpretazione della Patetica – che la riporta alla temperie in cui nacque – senza più complessi di colpa inutili e deleteri, sicher vor Bang’ und Grau’n!, come Wotan di fronte al Walhall, con la consapevolezza – e la fortuna – che ci deriva d’abitare questi tempi, in cui possiamo vedere finalmente le cose in prospettiva e osservare da una certa distanza il dibattito culturale che contribuì a generarla: se stasera Fabio Luisi può farcela ascoltare così – per molti quasi inaudita prima – è proprio grazie al tempo che è passato, che ha portato via molte scorie, e che ci ha restituito, intatta, la possibilità di ascoltarla come il primo giorno, con le sue scale discendenti che caratterizzano tutte le principali melodie, con quei passaggi che – magicamente – ci sembrano anticipare tanto di quel che verrà nei anni che seguiranno, come se le cadenze, le forme, le regole siano ancora quelle romantiche, ma una nuova vita nasca intanto come all’interno di esse, nuovi colori, sonorità inaudite, improvvisi trasalimenti, luci spezzate, angosce sotterranee.
Il Maestro Luisi dirige senza bacchetta, a volte mi danno l’impressione, le sue mani libere dalla costrizione della precisione aritmetica della struttura, di modellare l’aria come un vasaio l’argilla: i manufatti che prendono forma e vita dalle sue mani – d’eterea sostanza, di dolore e preghiera e speranza – s’innalzano aerei, invisibili, come lievi bolle di sapone per poi disfarsi tornando all’aria da cui sono generati. Sale, la tensione, fino all’ingannevole finale del terzo movimento che nasconde l’inquietudine dietro la maschera d’una marcia trionfale, sembrando tornare per un attimo all’ottimismo romantico, il pubblico meno smaliziato applaude, come spesso succede in questi casi, qualcuno addirittura si alza, poi si risiede per lasciar spazio dentro di sé a uno dei più momenti più intensi e commoventi nella storia della musica sinfonica, lenta elegia caratterizzata da una profonda tristezza e malinconia che culmina in un’espressione di disperazione e struggimento, evocando un senso estremo di fatalità e rassegnazione: alla fine la cadenza dolente del fagotto, che si dissolve lentamente in un finale silenzioso, lascia per un attimo sospesa l’emozione, come a mezz’aria, per poi precipitare, rapida, sciogliendosi nell’entusiasmo degli applausi.
Luigi Paolillo
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