Ancora Taverna al Verdi di Trieste, questa volta a suggellare una stagione di concerti molto brillante, gratificante e gratificata da un’orchestra in ottima condizione. In questo caso con la partecipazione del coro diretto da Paolo Longo a completare il mini-progetto dei Salmi di Zemlinsky. L’altra sera è toccato al Salmo 83, opera meno risolta sul piano formale rispetto al Salmo che, diretto da Nägele, aveva aperto il progetto nella stagione scorsa. Qui nel Salmo 83 il giovane compositore viennese sembra affidare un ruolo guida alla fila dei violoncelli verso il percorso che alimenterà poi il mondo sinfonico mahleriano.
Se ne è assunta il compito di governare saldamente la breve e rara partitura Gianna Fratta, per la prima volta sul podio del Verdi con un programma del massimo impegno, dal momento che al Salmo d’apertura seguivano l’imponente terzo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov e le scene burlesche stravinskiane di Petruška con la loro discontinuità ritmica, il loro mutevole, marionettistico, graffiante immaginario strumentale, ideale per esaltare ogni sezione e le prime parti dell’orchestra. Alla incisività e all’energia della concertazione, Gianna Fratta ha aggiunto una comunicativa che ha conquistato alla fine non solo il consenso ma anche la simpatia.
Del resto anche il concerto di Rachmaninov, in particolare il leggendario n. 3, offre uno scenario sinfonico ricchissimo, di una sontuosità diversa, tale da ricomporsi in una sorta di gigantesca torre, grandioso aggregato di Babele di Eiffel. In realtà un maestoso poema sinfonico con pianoforte solista monstre.
Prima e dopo la seconda guerra quest’opera, come tutto Rachmaninov, era bersaglio di pervicaci luoghi comuni: l’internazionalismo del compositore “così poco russo”, il suo pompierismo postromantico e vari altri arricciamenti di naso. Dei primi due Alessandro Taverna (che trovo sempre più somigliante a un affilato Liszt in bagno di umiltà) fa piazza pulita fin dal primo tema dell’Allegro. Il fatto è che il pianismo di Taverna è come una pianta che metta radici in una linfa sotterranea fluorescente e la irradi con la forza della natura fin agli estremi capillari. Per cui quella strapotenza che in altre esecuzioni è violenza percussiva, qui diventa ampiezza naturale della sfera sonora. E ancora una volta ogni esasperazione virtuosistica dilaga in un flusso ininterrotto. Secondando quel carattere che fonde il poema sinfonico con lo spirito di una continua “toccata”, nella dismisura della quale (è il caso dell’Intermezzo, e si capisce perché il compositore avvia voluto chiamarlo così) la natura sonora nella zona sopracuta della tastiera si fa liquida, di una fluidità perlacea e cristallina insieme. Sempre nel nitido equilibrio dialettico con l’orchestra. Prima di rovesciarsi nell’apoteosi del finale, che suscita lo sfrenato entusiasmo del pubblico. Successo condiviso con pieno merito con la direttrice.
Se esiste un concerto totalizzante al quale è quasi inopportuno chiedere un fuori programma, questo è proprio il Concerto in re minore di Rachmaninov. Taverna il bis però lo concede ed è l’aria di quella Cantata bachiana BWV 208 intonata da generazioni di pianisti e di cantanti. Una pillola di sublime, una di quelle cose eteree, dopo la quale davvero il resto sarebbe silenzio. Non fosse per l’onda di calore dell’ultimo applauso.
Gianni Gori
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