“Il nostro tempo è il tempo di Mahler . Tutto quel che lui ha scritto riguarda da vicino la nostra vita e questo credo sia un grande merito per un compositore che ha vissuto la propria vita d’uomo e di artista diviso in due epoche, tra un’epoca che stava esalando l’ultimo respiro ed il vento travolgente del nuovo secolo”. Lo dichiarava alcuni anni fa Leonard Bernstein cogliendo in maniera acuta l’attualità del grande compositore e direttore d’orchestra.
Le sinfonie di Mahler (“ballate della catastrofe” secondo una definizione di Adorno) costituiscono un ponte tra passato e futuro, riflettono le angosce del suo tempo, ma le proiettano anche nel nostro, scosso da una profonda crisi di valori.
Celebrato in vita soprattutto come direttore d’orchestra, Mahler come compositore fu solo in parte capito tanto che gli si attribuisce una frase significativa: “Il mio tempo verrà”. In realtà i colleghi più avvertiti ne riconoscevano la grandezza: così Schoenberg proprio nel 1911, anno della morte di Mahler, gli dedicava il suo Trattato di armonia indicandolo come uno dei punti di riferimento fondamentali per la musica moderna.
Mahler e Schoenberg sono stati i protagonisti della serata di ieri al Carlo Felice. Concerto nell’ambito del ciclo “Novecenti” e di chiusura della stagione sinfonica. Un epilogo, va detto subito, particolarmente festoso grazie a Fabio Luisi che sul podio della nostra orchestra ha regalato due straordinarie esecuzioni.
Del padre dell’espressionismo tedesco si è ascoltato il Concerto per pianoforte e orchestra op. 42. Non è fra i suoi capolavori, tuttavia offre momenti interessanti nel rapporto fra lo strumento solista (trattato spesso in maniera percussiva quasi “alla Stravinskij”) e orchestra, momenti che la direzione di Luisi e l’abilità esecutiva del talentuoso pianista Alessandro Taverna hanno saputo ben evidenziare.
Poi, clou della serata, la Sinfonia n.5 che Mahler compose entro il 1903, la presentò in pubblico per la prima volta nel 1904 ma la rimeditò sul piano della orchestrazione anche negli anni successivi.
Ancora nel 1911, l’anno della morte, Mahler scriveva a un amico: “Ho finito la Quinta: di fatto doveva essere completamente ristrumentata. E’ incomprensibile come allora potessi commettere errori da autentico principiante: evidentemente la routine acquisita nelle prime quattro sinfonie mi aveva completamente abbandonato, poiché uno stile completamente nuovo richiedeva una nuova tecnica”.
Lo stile “completamente nuovo” riguardava la complessità e la densità del linguaggio polifonico, la logica strutturale rigorosa. Da una testimonianza di un’amica si sa che durante il periodo della creazione della Quinta, Mahler studiava particolarmente i mottetti di Bach: e in effetti in alcune parti della colossale partitura si può verificare la solidità dell’impianto contrappuntistico, la capacità di controllare l’accumulazione di materiali eterogenei, mantenendoli compatti in una serrata visione unitaria.
Al contrario del collega quasi coetaneo Richard Strauss che agì sul solco tracciato da Liszt e Wagner (il poema sinfonico e il teatro musicale), Mahler guardò alla tradizione romantica lavorando su sinfonia e Lied ma rivoluzionando entrambi in una sorta di innovativa contaminazione reciproca.
La sinfonia “classica” naturalmente non esiste più, si ferma con la produzione di Brahms. Mahler ne acquisisce il contenitore ma ne altera i contenuti ricorrendo a un linguaggio spiazzante nella sua eterogeneità. Sinfonie che acquisiscono scansioni teatrali con i movimenti raggruppati in parti.
Così la Quinta si divide in tre grandi sezioni e in cinque movimenti: due nella prima parte, due nella terza e il gigantesco Scherzo centrale a fare da spartiacque.
La Quinta sembra ricalcare, pur con marcate differenze, il percorso emotivo della più popolare Quinta beethoveniana. Una sorta di catarsi attraverso la musica: si parte dal dramma (in questo caso una dissacrante Marcia funebre orchestrale con quegli squilli di tromba isolati che squarciano il silenzio) e si giunge attraverso l’aggressivo Scherzo al momento del più profondo e lirico dolore (l’incantevole Adagietto) per approdare a un baldanzoso e sonoro finale.
Un percorso estremamente complesso perché il linguaggio di Mahler fra aggressività e lirismo, fra frasi popolaresche e volgari e slanci di elegante gusto poetico, è terribilmente difficile da cogliere e da restituire.
Luisi è uno specialista del mondo musicale tedesco fra Ottocento e Novecento da Bruckner a Mahler e Strauss. E ieri se ne è avuta conferma. Una lettura di forte tensione emotiva, vibrante, poderosa, ma mai enfatica, asciutta e controllata nelle dinamiche, estremamente chiara nella restituzione del fitto intreccio contrappuntistico che, come si è detto, costituisce una delle cifre caratteristiche di questo lavoro.
I continui cambi di umore, i passaggi bruschi da un clima a un altro, hanno trovato in Luisi un interprete capace di risolverli con estrema pulizia espositiva, ben assecondato dallo strumentale in cui si sono distinte alcune prima parti dalla tromba al corno al primo violino.
Gli applausi finali sono stati interminabili e meritati.
Un’ultima annotazione. Al termine della prima parte, il pianista Taverna la cui esecuzione di Schoenberg aveva entusiasmato la platea ha concesso un elegantissimo bis, un Preludio di Rachmaninov. E Luisi, come fa abitualmente, con quella grande signorilità che non è di tutte le bacchette, si è messo di lato in piedi dietro gli archi ad ascoltare il suo solista.
Roberto Jovino
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