C’è qualcosa di nuovo, anzi di molto antico: un risveglio di curiosità indotto da un certo rinnovamento nella programmazione e nella “fruizione”. Segnali di cambiamento negli schemi consueti del concerto. Come in queste due serate della stagione sifonica triestina. Nella prima la sorpresa di un direttore come il giovane Ayrton Desimpelaere, di cui era stata apprezzata la presenza sul podio nella scorsa stagione in occasione del Romeo e Giulietta di Prokofiev con il balletto di Lubiana (spesso però dei direttori delle compagnie di balletto in trasferta si nota più il supporto “di servizio” che il talento) al quale è stato affidato il programma “ad assetto variato”del concerto. Tra la natura timbrica del Magnificat di Berio (con la vocalità astrale di Veronica Foia, Giulia Diomede e coro) e Ein Heldenleben, ovvero il sinfonismo della magnificenza assoluta, si inseriva, protagonista eccentrico rispetto alla norma della serata classica, il sassofono lussuoso di Federico Mondelci con la quasi impertinente invenzione primonovecentesca dei coevi Glazunov e Milhaud. E proprio nella saldezza di sviluppo, nella campitura visionaria e nella profondità di respiro del poema di Strauss è emersa sorprendente la personalità del direttore belga.
Nel concerto successivo firmato da un altro nome inedito, Giulio Cilona, recentemente affermatosi alla Deutsche Oper di Berlino, alla svolta innovativa provvedevano Francesca Dego ed Alessandro Taverna con una “novità” di due secoli or sono. Novità se così può dirsi nell’arco di due secoli, di un reperto di soli settant’anni fa: il Concerto in re minore di Felix Mendelssohn, esercizio di stile di un fanciullino che in mancanza di playstation e tablet e pur senza un plagosus Orbilius di oraziana memoria o un Leopold Mozart a pungolarlo, componeva a beneficio della propria famiglia e di una società benestante di pecunia e di cultura, usa a soddisfarsi con i modesti piaceri di arte, filosofia, letteratura e musica fatta in casa. Proprio per il famigliare trattenimento il virgulto dei Mendelssohn aveva confezionato con l’esuberanza dell’adolescenza (insieme con una dozzina di sinfonie che meriterebbero ancora di essere ogni tanto delibate) questo concerto: non un concertino da saggetto scolastico (basti l’ampiezza ambiziosa del primo movimento con la magniloquente introduzione degli archi), ma quello che opportunamente può dirsi “doppio concerto” (uno per violino, uno per pianoforte) i cui piani combacino a condividere le nervature e l’esuberanza ancora non definita nella misura aurea. L’entrata del pianoforte è come un colpo di frusta; fa scattare la corrente di un’invenzione nella quale si è già sedimentata la frequentazione musicale di Bach padre e figli, di Haydn, Mozart e dintorni; e nella quale percepiremo i fremiti sottili e aerei del Mendelssohn che sarà. E qui, nella qualità con cui violino e pianoforte sanno sublimare queste prefigurazioni, sta la cifra più preziosa dell’interpretazione. Non soltanto la rivisitazione di un Musizieren eletto, di un interno da porcellana di Dresda che improvvisamente prenda vita e nella vita si getti con giovanile sfrenatezza. La densità ed il calore del violino di Francesca Dego e il pianismo adamantino, irradiante di Taverna esaltano il fabbrile carattere dialogico del concerto che a volte ha il tratto del cicaleccio furbesco, del gioco, del capriccio fino al vertiginoso Allegro molto. Tutto secondato con misura dall’orchestra. Si finisce in un lampo con l’Ottava di Beethoven, che in certo senso può dirsi la più mendelssohniana delle sinfonie di Beethoven. La souplesse di Cilona è più di forma che di sostanza, ma è perfetta per chiudere la serata, prolungata dai bis concessi dal magnifico Duo tra le ovazioni della folla. All’uscita gli echi musicali e la soddisfazione della folla saranno travolti dalla gioiosa baraonda da Oktoberfest marinaro che caratterizza ogni volta, di questi tempi, la vigilia della Barcolana.
Gianni Gori
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