Chissà se fu un Angelo o una mano dal Cielo a suggerire a Michele Mariotti ed al suo staff, un anno fa, quando nessuno pensava agli odierni accadimenti, di far culminare un programma non di grido ma “pensatissimo” e rivelatosi magnifico e profetico, dalla Sinfonia nr 2 di Ciaikovsky, ovvero la “Piccola Russia”, termine che in pratica significa “l’Ucraina”. Il direttore stesso comunicava il suo stupore, presentando con il suo caratteristico tratto umano il concerto sul canale youtube dell’Accademia di Santa Cecilia.
Fatto sta che l’intero concerto ha conseguito, sabato al turno cui abbiamo presenziato (sala al solito non colma, ma Antonio Pappano in platea ad ascoltare il collega), un trionfo di pubblico tale da far segnare con il termine di evento autentico il debutto di Mariotti sul podio della massima orchestra sinfonica italiana.
Il ruolo conclamato (vedasi anche il recente Macbeth di Valencia) del Maestro pesarese come interprete odierno di assoluto riferimento dell’opera italiana, e anche una certa prudenza personale di Mariotti nel gestire la propria carriera in termini che sono l’esatto contrario rispetto a quanto fatto da alcuni suoi coetanei “pseudofenomeni” anche esteri, rischiano di far dimenticare una semplicissima realtà, cioé che si tratta, di fatto ed in toto e su scala internazionale, del massimo direttore della sua generazione, gli attuali quarantenni.
Abbiamo ascoltato diversi concerti dell’attuale stagione di Santa Cecilia. Ebbene, fatto salvo il livello costantemente alto della compagine, se parliamo di “standard orchestrale”, ecco: il livello di aplomb, potenza, “assieme” e dettaglio, duttilità, gioco strumentale, intensità espressiva raggiunto dai ceciliani sotto la bacchetta di Mariotti trova confronto, quest’anno, con la sensazionale Turandot-Pappano, e forse con l’altrettanto sfolgorante esordio del talentuoso Lorenzo Viotti con quel programma “viennese” che Viotti dovrebbe ripetere a fine mese (stavolta completo di Korngold) alla Tonhalle di Zurigo. Ma qui, con Mariotti, la “sostanza” e la qualità del suono orchestrale hanno davvero toccato un vertice.
Michele Mariotti ha iniziando letteralmente dipingendo (quella sua impagabile mano sinistra!) l’Ouverture su Temi Ebraici di Prokofiev, rubato vertiginoso fin dall’inizio, profusione di colori e dinamiche (un dato, questo, dell’intero concerto), totale pertinenza stilistica e un “carattere” personale che non è mai esibizione ma è sempre naturalezza.
Poi, a Mariotti si è unito Alessandro Taverna e i due, anche buoni amici nella vita, hanno trovato una totale, quasi giocosa, unità d’intenti nella travolgente lettura del Concerto per pianoforte ed orchestra di Benjamin Britten, compositore che ad ogni incontro, operistico e strumentale, si rivela una tal sorpresa di grandezza da rendere, secondo noi, obbligatorio che qualche istituzione musicale crei qualcosa di specifico – ciclo, festival – a suo nome. Siamo al top della musica del XX secolo, senza se e senza ma.
Alessandro Taverna è una Mercedes del pianoforte, per dire: una “cilindrata” pazzesca. In un personalissimo assetto ravvicinato al piano, due mani dalle dita lunghissime arpionano letteralmente, come tentacoli d’acciaio, la tastiera. A questo si uniscono intelligenza ed estro. “Cilindrata”: è un pianismo che carbura, poi letteralmente deflagra nella musica. E siccome a potenza si unisce fantasia, e siccome con Mariotti c’era piena complicità, l’esecuzione è stata un rimbalzo continuo di idee e spunti espressivi fra podio e tastiera, dalla complessità del movimento iniziale, alla rarefazione del valzer, alle volanti leggerezze dello scherzo, per approdare, nella gran marcia finale, alla trascendentale, irresistibile esplosione di accordi violentissimi che chiude un lavoro nel quale sicuramente Britten autocelebro’ (ma a che livello compositivo) la propria stessa perizia pianistica! Intelligenza e mano di Taverna si sono espresse anche nella scelta e nell’esecuzione del bis (Friedrich Gulda).
Infine: la “Piccola Russia”, si compone in pratica, come s’accennava, dell’unione d’una serie di canti ucraini (scelta da Mariotti un anno fa: Dio esiste!) nei quali Ciaikovsky già profonde tutto se stesso. La melodia, il ritmo, i colori, la struttura che in tutto questo si nasconde, il dolore, la gioia. Di tutto questo, Michele Mariotti – con un’orchestra (solisti magnifici: il corno iniziale! E assieme)che a questo livello di adesione è un piacere anche “veder suonare” – si è fatto interprete talmente idiomatico da farci pensare che, anche da direttore d’opera, un suo approccio a Ciaikovsky sia un obbligo e per tutti noi una speranza.
Pubblico del sabato, come si è detto, in totale visibilio, con abbonate “anziane” lanciatesi di corsa fin sotto il podio, addirittura mettendosi a parlare con il direttore, visibilmente commosso, nella sua tipica cordialità, dal calore dell’accoglienza. A Santa Cecilia lo hanno ora come “vicino di casa”, all’Opera, e non mancheranno le occasioni per nuovi incontri. Per Roma tutta, Michele Mariotti è un valore aggiunto, in musica ed in umanità.
Marco Vizzardelli
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