Al Teatro di San Carlo, Fabio Luisi e Alessandro Taverna propongono il Concerto n.1 di Liszt, ma è la Patetica di Čajkovskij nella seconda parte della serata a entusiasmare nella lettura del direttore genovese.
NAPOLI, 13 luglio 2023 – Virtuosismo versus pathos: il funambolismo tecnico del Concerton. 1 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra di Franz Liszt contrapposto all’intima, pessimistica e disperata soggettività della Sinfonia n. 6 in si minore, op. 74 “Patetica” di Pëtr Ilʼič Čajkovskij delimitano i confini del programma scelto da Fabio Luisi e Alessandro Taverna per il loro atteso ritorno al Teatro San Carlo.
Due mondi musicali alquanto lontani da loro: il Concerto di Liszt è dominato dalla travolgente, istrionica e, a volte, ridondante scrittura virtuosistica affidata al pianoforte (e non di meno all’orchestra); la Patetica di Čajkovskij, invece, è il megafono di una disperata confessione di un’anima tormentata, un Requiem che il compositore russo scrive per se stesso, mettendo a nudo il suo Io.
Alessandro Taverna, ritornando al San Carlo dopo il lodevole concerto del novembre del 2021 (qui la recensione), del concerto di Liszt è attento a enfatizzare più il lato virtuosistico che quello espressivo: tocco nitido, suono tornito, scintillante; precisione, ampio ventaglio di dinamiche e colori che consentono al pianista veneziano di affrontare in sicurezza e con naturalezza la diabolica scrittura pianistica di Liszt. Ma, per valorizzare le proprie doti esecutive, per esaltare la bellezza del proprio suono, i pesi del suo tocco, talora Taverna si concede degli allargamenti agogici eccessivamente rilassati, i quali, se mettono in risalto la bellezza e il lirismo di alcuni temi, rischiano di sfilacciare l’unitarietà del discorso musicale, determinando qualche volta perdita di tensione.
La magia del tocco di Taverna – aereo e sulfureo nel momento in cui il pezzo assumerebbe, secondo la corrosiva definizione del critico viennese Eduard Hanslick, le sembianze di un Triangelkonzert (concerto per triangolo) – è strabiliante; e, per una partitura imperniata su virtuosismo travolgente e vulcanico, ciò è il presupposto per una buona esecuzione.
Fabio Luisi e l’Orchestra del San Carlo sono deuteragonisti rispetto al pianoforte: si ha la sensazione che il direttore genovese assecondi (troppo, ad avviso di chi scrive) gli allargando che si concede Taverna; tuttavia il fitto dialogo con il pianoforte si dimostra puntuale, incisivo e impostato sul rispetto dei pesi sonori tra le famiglie strumentali. Luisi, da esperto concertatore, ci ricorda, qualora gli ultimi recenti concerti sancarliani ci avessero ingenerato qualche dubbio, che tra i suoi compiti primari c’è quello di garantire il perfetto bilanciamento fonico tra le varie famiglie strumentali. In questo concerto, così come nella successiva sinfonia Patetica, ogni strumento/famiglia ha il proprio ruolo all’interno dell’edificio sinfonico, senza che prevalga su gli altri o sia prevaricato da altri. Il risultato è un accompagnamento orchestrale scintillante, tendenzialmente preciso, una visione interpretativa conforme a quella proposta dal pianista.
Alessandro Taverna viene salutato da lunghi applausi e richieste di bis: ne concede due, il Prélude n. 5, op. 32 di Sergej Rachmaninov, estenuato, languido ed evanescente, e il travolgente e jazzistico Play Piano Play n. 6 Toccata di Friedrich Gulda.
E dopo l’istrionico virtuosismo del Concerto per pianoforte di Franz Liszt, è la Patetica di Čajkovskij a infiammare il pubblico del San Carlo. L’esecuzione trascinante che Fabio Luisi dà della più iconica e nota delle sinfonie del compositore è senza dubbio una delle più brillanti, sconvolgenti interpretazioni ascoltate nella stagione concertistica in corso. Luisi scava nella partitura, ne analizza ogni cellula, la esalta; ricerca e ottiene dall’ottima orchestra del san Carlo sonorità dal colore, portata e scabrosità quasi novecentesca.
Se qui Čajkovskij non ha timore di mettere in musica la storia della propria anima, la lettura di Fabio Luisi è la radiografia di quest’anima. Il direttore genovese coniuga incredibilmente analisi, pathos e tensione: non c’è, nell’arco dell’intera Sinfonia, un solo momento di cedimento della tensione e dell’emozione; anzi, Luisi, giusto per fare un esempio, nella seconda metà del primo movimento Adagio. Allegro non troppo, compie prodigi proprio nel dosare il progressivo accumulo di drammaticità sin dall’esplosione in fortissimo: da quel momento Luisi stringe, compatta la sua orchestra in una morsa di febbrile tensione, la fa brillare, la innerva di un flusso magnetico incoercibile che deflagra nel disperato tema affidato, in via principale, agli archi e sul quale si innestano poderosi e precisi gli ottoni. È questo un climax musicale preparato da Luisi con un controllo vertiginoso dell’orchestra, delle dinamiche e, soprattutto, facendo espirare tutta la tensione drammatica accumulata nelle battute precedenti. Si resta annichiliti dal precipitare musicale, di reale potenza drammatica che si serve (così come dovrebbe accadere; e non il contrario!) di quella sonora per esprimere l’ultimo grido di disperazione del naufragio dell’anima di Čajkovskij. Ma questo è solo uno dei tanti episodi, magnificamente incastonati e legati tra loro, che costituiscono la struttura della interpretazione di Luisi.
Colpisce, poi, l’eleganza con la quale il maestro stacca il tempo di 5/4 dell’Allegro con grazia del secondo movimento: a mani nude, senza bacchetta, “suona” l’orchestra, le dà accenti, colori, inflessioni di momentanea e fragile serenità. Luisi dà la sensazione di danzare e far danzare la musica che promana dal suo gesto.
La soddisfazione e l’intesa tra i professori d’orchestra si legge sui loro volti: significativa e immediatamente percettibile è quella tra le due prime parti dei violini, Gabriele Pieranunzi per i primi e Salvatore Lombardo dei secondi.
L’Allegro molto vivace del terzo movimento mostra, per l’incisività delle sonorità e la plasticità della ritmica, parossismo e sarcasmo, preludi di quelli novecenteschi, dei quali i compositori russi si dimostreranno maestri insuperabili. Quello che esce dalla mani di Luisi è una visione di Čajkovskij pessimistico e sfiduciato, che musicalmente giunge alle porte del ‘900: la lettura è così profonda che ne svela e anticipa inquietudini che domineranno mondo, arti e composizioni del XX secolo.
Coerentemente con questa visione, nell’ultimo movimento Adagio lamentoso. Andante sfociano tutte le intuizioni interpretative di Fabio Luisi: il discorso musicale si fa straziante, affannoso; quasi tolgono il respiro le ultime lente note ribattute dei violoncelli e dei contrabbassi e che Luisi fa risuonare come rantoli di morte, dal suono asciutto, che si dissolvono nel silenzio di una sala ipnotizzata, che attende che le mani del maestro si fermino in corrispondenza dei fianchi per sciogliere il proprio applauso liberatorio.
Dopo il magnifico esito dell’Evgenij Onegin diretto da Luisi a giugno dello scorso anno al San Carlo (qui la recensione), le aspettative per questa interpretazione della Patetica erano elevatissime: questa esecuzione ha condotto gli ascoltatori, e chi scrive, verso un vertice di sconvolgimento emotivo.
Rispettoso e interrogativo silenzio dopo gli ultimi strazianti accordi della Sinfonia, e poi trionfo per Fabio Luisi, l’Orchestra del San Carlo e per uno tra i più significativi e memorabili concerti sinfonici degli ultimi anni.
La sala (molto bello vedere tanti giovani attenti e rapiti dalle note di Liszt e Čajkovskij!) manifesta la propria emozione e apprezzamento con prolungati e calorosissimi applausi.
Luigi Raso
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