In un gioiello di sala qual è il Teatro Ristori di Verona, la stagione concertistica curata da Alberto Martini ha proposto una serata di richiamo per gli amanti del pianoforte e del Romanticismo per eccellenza: i due Concerti per pianoforte e orchestra di Chopin con il solista Alessandro Taverna e I Virtuosi Italiani in formazione cameristica. Che ci fosse “bisogno di un’esecuzione speciale” per rendere onore al Concerto n.1 lo affermava lo stesso Fryderyk, alla vigilia della prima esecuzione nel 1830, e chi meglio avrebbe potuto se non il pianista veneto Taverna, che proprio con questo Concerto iniziò nel 2009 la sua carriera internazionale sul podio del concorso di Leeds.
Già apprezzato per la sua eleganza e luminosità timbrica nelle pagine di Debussy e Ravel, Alessandro Taverna ha investito tutta la sua sensibilità e raffinatezza nelle due opere chopiniane, con un incedere struggente ma mai melenso (nelle melodie eterne dei due Larghetti e nelle infinite volatine perlate), concitato ma mai aggressivo (laddove la musica s’increspa e i volumi sonori aumentano). Quando, veicolati da questa musica potente, giungono al pubblico sentimento come l’amore e il dolore, questi risultano sempre dettati dal dio Apollo, descrivendo opere d’arte nelle alte sfere. La scelta interpretativa di Taverna si nutre di fine eleganza, e nella sua coerenza giustifica anche, nel Primo come nel Secondo Concerto, un attacco non eroico del solista nell’aprirsi del primo movimento. Ma sul rapporto di equilibri sonori tra il pianoforte e l’orchestra non possiamo dire di più. Perché l’orchestra, appunto, non c’era.
La serata proponeva «in senso retrospettivo […] il recupero delle versioni originali dell’Autore per pianoforte e quintetto d’archi […] un’operazione di grande fascino e ricerca interpretativa», così avvisavano le note di sala. Una valida operazione dal dichiarato interesse storico e musicologico, dunque, che purtroppo non ha premiato l’idea, almeno non in una sala di quelle dimensioni e non nella disposizione con il pianoforte concertatore – il pianista dava la schiena al pubblico – e gli archi attorno in piedi.
I Virtuosi si fondevano meravigliosamente nella timbrica del pianoforte in quelle pagine dove lirismo e intime sonorità intessevano la melodia, regalando quasi una nuova versione di Chopin che potrebbe essere definita come un “Notturno accompagnato”. Ma quando la musica cominciava ad agitarsi, fremere ed alzare la testa sopra il forte, allora gli archi, proprio per la scrittura a cinque parti, non riuscivano ad imporsi al giusto livello, interrompendo dal punto di vista sonoro l’agogica nello scambio tra il solista e il tutti orchestrale. Gli stessi incipit dei due Concerti tradivano, ahimè, nella loro voce esigua quell’aspettativa di un attacco che da duecento anni cattura l’ascolto promettendo soddisfazioni paradisiache. Se si volesse approfondire questa strada, si potrebbe partire da una sala più contenuta e da una disposizione più consona. All’uscita dal Teatro Ristori si condivideva tra il pubblico la sensazione di aver ascoltato un buon concerto, ma anche il desiderio di poter riascoltare i Concerti di Chopin nella versione con l’orchestra piena.
Monique Ciola
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