Saltato il tradizionale concerto di San Silvestro per volere del virus, la stagione dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza non si è fatta fermare dalla quarta ondata nella ripartenza dell’anno nuovo. In un teatro Comunale pieno per non più di metà (un peccato per chi ha rinunciato) si è presentato sul podio della formazione giovanile vicentina quell’eclettica figura di compositore-direttore-scrittore-promotore musicale che è Carlo Boccadoro, il quale ha impaginato una serata della quale il minimo che si possa dire è che – dal punto di vista del programma – era sicuramente originale.
La musica del nostro tempo era rappresentata da Arvo Pärt e Lorenzo Ferrero: il primo con la recente trascrizione per orchestra d’archi delle Sette Antifone sul Magnificat per coro a cappella, scritte originariamente nel 1988; il secondo con un brano più o meno coevo dell’altro, My Blues, composto nel 1986. Anche in questo caso, peraltro, ne è stata proposta una trascrizione – sempre per orchestra con soli archi – dello stesso autore, essendo l’originale per pianoforte. Pärt e Ferrero appartengono a due generazioni diverse (il compositore estone compirà nel prossimo settembre 87 anni, il torinese ne ha 70) ma hanno in comune la loro sostanziale estraneità alle correnti più radicali dell’avanguardia musicale del secondo dopoguerra. Una scelta estetica ed espressiva che può avere (e nel loro caso in effetti ha) motivazioni e soluzioni anche molto diverse, ma che si traduce nella riconoscibilità di un linguaggio che presenta evidenti collegamenti con la tradizione europea classica e romantica, se non altro nella riconoscibilità melodica e armonica. In queste Antifone, Pärt non rinuncia alle sue caratteristiche e pensierose introspezioni, che anche a fronte di un testo esultante con il Magnificat ben poco spazio danno alla gioia fine a sé stessa; e il Ferrero di My Blues appare in questo caso interessato a una sorta di autoanalisi sulla malinconia (così si deve intendere il termine inglese, nella sua accezione letterale che rimanda alla tristezza se non proprio alla depressione), autoanalisi che si dipana con trasparente ricchezza di suggestioni motiviche e armoniche.
Come si può capire, due brani nei quali il colore degli archi è l’elemento fondamentale, restituito con efficace concentrazione e notevoli gradazioni timbriche dagli strumentisti della Oto, al netto delle ben note problematiche dell’acustica del Teatro Comunale.
La serata è proseguita con le ottocentesche divagazioni di Edvar Grieg sulla musica dell’era barocca, immortalate nella nota ma forse sopravvalutata Holberg Suite, che si trastulla fra Sarabande, Gavotte e Rigaudon più come occasione di brillantezza ritmica che con autentica consapevolezza stilistica. In ogni caso, un altro riscontro per il buon lavoro sull’insieme condotto da Boccadoro, che ha ottenuto risposte senza incertezze dalla formazione olimpica.
Il singolare divagare fra stili ed epoche diverse della serata è giunto infine alla sintesi, che tale era all’epoca sua e tale rimane ancor oggi, realizzata dal genio mozartiano. In programma c’era il Concerto per pianoforte K. 271, sbalorditivo capolavoro dei vent’anni che conduce gli ascoltatori direttamente nel clima sonoro, a suo modo teatrale, che solo le ultime composizioni del genere raggiungeranno. Ne è stato impeccabile interprete – a fianco di un’Orchestra del Teatro Olimpico che si è proposta con la naturalezza di chi ritrova un autore favorito – il pianista veneziano Alessandro Taverna, convincente non soltanto per il tocco, sempre misurato, brillante e preciso, ma anche per l’eleganza del fraseggio, meditato ed elegantemente chiaroscurale. Il tutto a definire un suono di poetica leggerezza, capace di rendere bene l’esultanza virtuosistica dei due movimenti rapidi ma anche la profonda introspezione del meraviglioso Andantino in Do minore. Lettura di salda impronta classicistica – le sue radici sembrano essere nel magistero di Alfred Brendel – ma anche di forte efficacia coloristica e di notevole virtuosismo digitale (affascinante il rilievo della mano sinistra), che non abbandona mai un impeccabile equilibrio ma al suo interno trova sfumature molteplici e avvincenti.
Calorosi applausi alla fine, e per bis un omaggio a un grande dell’interpretazione mozartiana, Friedrich Gulda: il frammento dal suo “Play piano play” si avvicina per ritmo e armonie alla sprezzatura jazzistica così amata dal pianista austriaco, ma è allo stesso tempo una sorta di affascinante Toccata alla maniera antica.
Cesare Galla
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