In che maniera la musica da camera “racconta” la natura? Una risposta è arrivata dal sofisticato concerto presentato al Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza dalla Società del Quartetto, protagonisti la violinista Francesca Dego, il pianista Alessandro Taverna e il cornista Martin Owen. Il loro programma, suddiviso in combinazioni strumentali diverse, era da un lato focalizzato sulla grande stagione del Romanticismo tedesco nel nome di Schumann e di Brahms, e dall’altro proponeva, con un balzo di oltre un secolo, pagine capitali firmate da Olivier Messiaen e György Ligeti fra gli anni Settanta e i primi Ottanta del secolo scorso. Nell’insieme, un appuntamento tutto all’insegna della grande musica, basato su partiture poco o per nulla eseguite, anche per la peculiarità dell’organico.
Il nucleo principale della serata era dato dalla relazione, ideale e di fatto, esistente fra il Trio op. 40 per violino, corno e pianoforte di Johannes Brahms (1864-65) e il trio per il medesimo organico di Ligeti, che risale al 1982. Il riferimento del compositore ungherese è dichiarato a partire dalla dedica a Brahms e si dipana anche nella suddivisione formale: quattro movimenti come l’antecedente, scansione sostanzialmente sovrapponibile, con un primo movimento assai meditabondo e il movimento rapido in seconda posizione.
In Brahms il dialogo fra il corno (insolito nella sua musica da camera e mai più riutilizzato in questo modo dal musicista amburghese), il violino e il pianoforte delinea uno spirito contemplativo legato all’ambiente naturale come fonte di ispirazione. In questo caso, si tratta della Foresta Nera e dei suoi paesaggi, che lungi dall’essere occasione descrittiva fine a sé stessa diventano in certo modo il tramite psicologico per un clima introspettivo meditabondo, nel quale ha un ruolo anche la figura della madre del compositore, scomparsa poco prima di questa composizione. In Ligeti il linguaggio acquisisce uno spessore se possibile ancora più coinvolgente, giocato sui rapporti fra le linee strumentali e i loro colori, come pure sulla complessità ritmica e spesso poliritmica, segnatamente nell’avvincente Vivacissimo del secondo movimento. In entrambe le composizioni, mirabile è la corrispondenza tra la forma e il pensiero creativo: l’omaggio dell’autore novecentesco è certo mediato dall’ironia, ma si tratta di un’ironia per così dire “costruttiva”, capace di creare arcane corrispondenze, che l’ascolto in successione delle due composizioni ha reso magnificamente evidenti. Intorno a questi due poli, il programma ha visto in apertura della prima parte la poetica Sonata per violino e pianoforte op. 105 di Robert Schumann, pagina anch’essa capace di evocare atmosfere psicologiche molto personali per quanto squisitamente eleganti, specie nel dolce Allegretto che separa i due movimenti estremi, e in apertura della seconda parte il formidabile assolo di corno di Olivier Messiaen intitolato Appel interstellaire.
Il collegamento naturalistico di questa composizione peculiare deriva innanzitutto dal fatto che venne originariamente concepito come parte integrante di una vasta composizione orchestrale intitolata Des canyons aux étoiles, commissionata nei primi anni Settanta al compositore francese per il bicentenario degli Stati Uniti. Nell’insieme è una pagina naturalistica per definizione, quasi per “programma”, che prende le mosse dagli straordinari paesaggi dello Utah per arrivare a una dimensione cosmica, come postula lo stesso titolo. All’interno di essa, l’ardua pagina solistica affidata al corno – ben presto estrapolata come pezzo da concerto – disegna un affascinante viaggio dentro al suono di questo strumento e alle sue possibili modificazioni grazie alla tecnica esecutiva e all’utilizzo di vari dispositivi. Ne esce una sorta di soliloquio insieme personale e universale, materico e spirituale, che delinea bene la personalità creativa di un compositore fondamentale nel passaggio dalla modernità all’avanguardia.
Martin Owen, primo corno solista della BBC Symphony Orchestra, ne ha offerto una realizzazione di palpitante immediatezza, tecnicamente inossidabile e musicalmente animata dalla sottigliezza analitica e dall’efficacia coloristica in grado di far cogliere quanto la struttura di questi cinque minuti di musica pura sia sorvegliata e piegata alle ragioni del pensiero e dell’espressione. Owen è stato elemento fondamentale anche nella maiuscola esecuzione dei due Trii, all’interno dei quali ha dialogato con fervida evidenza con il violino e con il pianoforte, passando dalle atmosfere pensose di Brahms a quelle sofisticate di Ligeti con eguale pertinenza stilistica e limpidezza esecutiva.
Per parte sua, Francesca Dego è risultata musicalmente fascinosa sia nelle pagine romantiche che in quelle novecentesche, trovando sempre la sfumatura rivelatoria nel colore, nella precisione in agilità, nel controllo sulla zona sovracuta della tessitura (molto frequentata in Ligeti). Eloquente l’arcata, raffinata la sottigliezza di un fraseggio capace di scavare negli angoli del pensiero creativo.
Altrettanto presente e determinante Alessandro Taverna, capace di passare dal tocco morbido ed elegante di Schumann e Brahms alle multiformi dimensioni sonore postulate per il suo strumento da Ligeti, sempre assecondando al meglio l’esuberanza ritmica del compositore ungherese e svelandone con brillantezza l’ironia.
Pubblico prodigo di applausi, bis nel nome di Schumann.
Cesare Galla
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